L’Artista del Mese di SETTEMBRE de IL QUADRO DEL DIRITTO è GRAZIELLO PELLIZZON – 12 mesi/ 12 artisti / 36 opere/ 3 sedi espositive – da un’idea di Carlo Chelodi
Le opere esposte da Graziello Pellizzon hanno ispirato la riflessione giuridica del Prof. Avv. Federico Puppo che qui si riporta :
“Il quadro del diritto. Ovvero: di libere riflessioni su meraviglia, arte, filosofia e diritto” – di Federico Puppo
Quel che segue si propone come riflessione sul rapporto fra arte e diritto dalla prospettiva del filosofo del diritto: si tratta di un tema che il recente affermarsi dei settori di studio denominati Law and Literature e Law and Humanities rende meno peregrino di quanto possa sembrare ma che, certamente, fino a poco tempo fa (e forse per alcuno è ancora così) non avrebbe potuto rivestire alcun pregio scientifico. Nel clima dell’allora imperante scientificizzazione dei saperi, che ha toccato anche quello giuridico, lo si sarebbe tranquillamente relegato nell’alveo di interessi latamente ‘culturali’. Oggi, però, le cose stanno cambiando e risulta più semplice azzardare – come cercheremo di fare noi – una riflessione che cerchi di indagare la diade “arte e diritto” con il proposito di assegnare a tale rapporto un carattere strutturale e non occasionale, in virtù della filosofia che trasforma la diade in triade.
Dovendo prendere le mosse da qualche parte, crediamo che un buon modo per parlare dei nessi fra arte e diritto sia quello di iniziare… dall’inizio o, meglio, da uno dei possibili inizi di questa narrazione: ci riferiamo ad un luogo che per i giuristi è assai familiare, se non altro perché è fra i primi con cui si viene ‘costretti’ a prendere confidenza sin dal primo anno degli studi in giurisprudenza. Stiamo parlando del celeberrimo passo del Digesto, in cui Ulpiano, richiamando Celso, enuncia senza mezzi termini che «ius est ars boni et aequi»: il diritto non è ridottto a tecnica di normazione o regolazione sociale ma, appunto, è arte; un’arte che, come tale, ha a che fare con il buono e l’equo.
Si tratta, ci sembra, di un rapporto assai solido, che viene denotato in termini molto forti, quasi indentitari («il diritto è arte»): ma subito Ulpiano prosegue ricordando che «qualcuno, meritatamente, potrebbe chiamarci sacerdoti del diritto: infatti coltiviamo la giustizia e professiamo la conoscenza del buono e dell’equo separando l’equo dall’iniquo, discernendo il lecito dall’illecito, desiderando rendere buoni gli uomini non solo con il timore delle pene, ma anche con l’esortazione dei premi; aspirando se non erro, alla vera, non ad una apparente filosofia». Ci viene così detto che ius est ars e che colui che lo esercita aspira alla veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes: ecco che emerge qui, agli albori del diritto così come verrà poi inteso nei secoli a venire, il nesso “ars-ius-philosophia”.
Dal nostro punto di vista, il valore di tale nesso può essere certamente metodologico, almeno per ciò che concerne la diade “ius-philosophia”: esistono, infatti, buone ragioni per leggere una forte comunanza di metodo fra il diritto e la filosofia, essendo entrambi saperi di tipo argomentativo. Ma laddove la seconda opera dialetticamente, il primo, proprio come insegnava già Aristotele, non può accontentarsi della sola dialettica, dovendo piuttosto impiegare anche la retorica: in tale prospettiva, può dirsi che l’esercizio del diritto è vera philosophia perché, con esso, proprio come avviene con la vera filosofia (e non con la filosofia apparente, quella di tipo sofistico), si ricerca la verità. Però, forse, non ci sono solo queste ragioni di metodo – che pure ci sono – che legano la filosofia al diritto (senza che però, almeno a questo stadio, l’arte sia presa in considerazione): ci potrebbero infatti ragioni più profonde che intessono quel legame, intrecciando la filosofia al diritto ma anche all’arte stessa.
Per comprendere ciò, è necessario ricordare, seppur brevemente, come la filosofia (almeno nell’accezione fatta propria da Platone e da Aristotele – esemplarmente illustrata dalle opere di Enrico Berti, cui ci ispiriamo) è ben più di una mera attività intellettuale. La filosofia è domanda, cioè ricerca autenticamente problematica e critica: è, in altri termini, domanda totale, perché investe la realtà intera e, così facendo, riconosce la necessità di trascendere la realtà fisica, di interrogarsi cioè sul Principio. Ora, ciò che è qui importante ricordare è la scaturigine di tale domandare: esso, almeno secondo la lezione che facciamo qui nostra, non può essere preordinato o prodotto da alcuna tecnica. In quanto tale, il domandare è un atto libero e gratuito del nostro, direbbe Heidegger, «esser-ci». La scaturigine del nostro domandare è, perciò, quello che la nostra tradizione filosofica chiama «thaumazein», meraviglia: «gli uomini hanno incominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia» (Arist., Metafisica) poiché, in effetti, «è proprio del filosofo essere pieno di meraviglia: e il filosofare non ha altro cominciamento che l’essere pieno di meraviglia» (Plat., Teeteto).
Molto, come ben si può immaginare, è stato scritto sulla natura di questo thaumazein: di certo, occorre avere ben presente che “meraviglia” identifica non un generico stato di stupefazione, ma una condizione di ignoranza giacché, come afferma ancora Aristotele, «chi prova un senso di meraviglia riconosce di non sapere». Anche qui, però, ignoranza di un certo tipo, perché molte sono le cose che non sappiamo, ma non ogni cosa che non so suscita in me meraviglia. Per esempio, non sappiamo quanti cristalli di neve e ghiaccio ci siano sull’Everest, ma questo tipo di ignoranza non è quella cui si riferisce Aristotele: piuttosto, le cose che non so e che suscitano in me meraviglia sono quelle che, in un modo o nell’altro, perturbano o sconvolgono le nostre idee o intuizioni fondamentali sul mondo. Sono quelle cose, come dice bene Franco Volpi nella sua Introduzione a «Che cos’è metafisica?» di Heidegger, che provocano in noi uno «spaesamento», che suscitano in noi una domanda in cui «ne va di noi stessi»: «tale esperienza sopraggiunge per un turbamento e coinvolgimento profondi dell’esserci che si manifestano in stati d’animo fondamentali [come l’angoscia o la gioia] la cui peculiarità sta nell’emergere senza preavviso, “quando meno uno se lo aspetta”». Ecco: propriamente si viene colti dalla meraviglia; essa, per così dire, più che prodotta da noi, accade in noi e suscita in noi quel modo di pensare – dice magnificamente Wittgenstein – «che è come un miracolo».
La filosofia, in questa sua essenziale ignoranza, è quindi il radicale toglimento di ogni pregressa sicurezza che però, è bene dirlo, nulla a che fare con il relativismo (la problematicità della filosofia non è problematicismo, ma il riconoscimento che la ricerca, ovvero la domanda in cui si esprime l’esperienza, non può lasciarsi assolutizzare, convertirsi cioè in risposta): ed è qui che ristà il senso proprio del «sapere di non sapere» di Socrate.
Ecco che, allora, la meraviglia propriamente accade nell’esistenza di un uomo, toccandolo nella sua costituzione emotiva profonda e inducendolo ad interrogarsi sul tutto, sul senso ultimo delle cose. E quando questo accade si assiste ad un fenomeno che coinvolge l’intera esistenza: è, per dirla con Platone, «una conversione di tutta l’anima».
Ora, messe così le cose, è piuttosto semplice, quasi intuitivo, ritrovare il nesso profondo che lega arte e filosofia, già tutto racchiuso prima nell’ideale greco della kalokagathia e poi romano della humanitas. Ma in tutto ciò che ne è del diritto, che pure ci veniva detto, proprio in quel contesto, essere ars e vera philosophia? Detto in altri termini: c’è spazio, nel diritto, per la meraviglia?
La risposta, almeno per chi scrive, è ovviamente una sola: «Sì. C’è».
Meraviglia, lo abbiamo appena visto, è ciò che toglie ogni pregresso fondamento: ed è, crediamo, nell’esercizio autentico, verrebbe da dire: reale, del ius – e cioè nell’esperienza processuale e quindi non nella dimensione astratta della norma – che il thaumazein può accadere: ogniqualvolta, guardando il cliente o la parte, in realtà ci si interroga anche su noi stessi e sul senso ultimo delle cose. Il togliere ogni fondamento, il sapere di non sapere, ha come direzione, infatti, il conoscere se stessi: con tutti i pericoli che ciò comporta, ché potrebbe anche succedere di scoprire, un giorno di non poter più esercitare il diritto, di voler dismettere la toga e non fare più l’avvocato o il giudice.
L’arte, la filosofia, il diritto, se presi sul serio, mettono così l’uomo, costantemente, nelle necessità di non potersi può acquietare in quello che Heidegger chiama il «per-lo-più», il «chiacchiericcio» del mondo. Ciò che si esperisce nell’arte, nella filosofia, nel diritto è come un pungolo che spinge l’uomo, per usare un’immagine eraclitea, a svegliarsi dal sonno dei dormienti e a vivere una vita autentica. L’artista, il filosofo, il giurista, sono dunque coloro le cui esistenze si danno per poter rappresentare agli altri e a se stessi che le cose potrebbero stare altrimenti, essere in un altro modo.
Ma, per l’appunto: essere! (non c’è spazio, insomma per il nichilismo…). Ed è qui che, ci dice ancora Heidegger, si trova l’eccezionalità dell’esistenza umana: «unico fra tutti gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è» (l’uomo è l’unico perché solo noi – questo però Heidegger non lo diceva… – unici fra tutte le creature, siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio). E da qui la domanda che investe ciascuna esistenza autentica, quella che, nel quadro del diritto, occorre che emerga: «perché in generale l’ente e non il Niente?».